il carso. la bora.
mike markart - martin g. wanko.
Corrado PremudaL
BORA
LA BORA MI MANGIA I CAPELLI
La bora mi mangia i capelli! Questo dicevo da bambino, con un misto di spavento e di euforia, quando mi apprestavo a varcare la soglia di casa per affrontare il vento vigoroso che spettina e butta a terra. Immaginavo che quel mostro che sentivo ululare sarebbe comparso sul mio cammino appena sceso in strada e mi avrebbe platealmente rubato il berretto e magari anche la cartella, o mi avrebbe scaraventato giù dalle scale dopo avermi fatto lo sgambetto. Ma venivo smentito ogni volta: la bora è qualcosa che si sente, non si vede.
Ci sono giorni a Trieste in cui i vetri delle finestre tremano con violenza e finiscono per rompersi, dal cielo possono piovere pericolose tegole appuntite, le navi nel porto non riescono ad attraccare. Di notte si fatica a prendere sonno per quel sibilo costante e sgraziato che incrina il silenzio e scompiglia i pensieri.
Ma fuori dal centro, sul carso, le cose cambiano. Lì si può vedere la bora. Tra le rocce e i piccoli boschi il vento s'infila come un'onda aerea che frusta le foglie e spazza i sentieri. Nella natura quella forza incontrollata diventa un complemento e tiene compagnia. Sul carso la bora modella il paesaggio: mangia i capelli dei bambini ma li riporta agli odori e alle forme della terra.
Nelle storie che scrivo il vento è sempre presente, a volte sottolinea la drammaticità di un momento, a volte inserisce la giusta nota di struggimento. Per i triestini la bora è il momento di fare punto e a capo, il momento per rimettere tutto in discussione: è quando sentiamo il bisogno di scompaginare il nostro ragionamento, quando ci abbandoniamo alla furia del cielo. Allora soffia la bora.
Il carso, invece, per me era la gita dopo pranzo con la maestra e i compagni di classe, a raccogliere le foglie del rosso sommaco, non più di tre a testa!, e a giocare nei prati, attenzione alle vipere! E oggi è la passeggiata domenicale con gli amici che termina nei sapori di un'osmiza. Solo di recente ho scritto un testo incentrato sull'altipiano che è una continuazione della città e che regala, a chi come me appartiene alla città, un incontro coi sensi di facile accesso. Mentre scrivevo le mani che battevano sul computer non erano più mie, e nemmeno gli occhi che immaginavano la scena erano più i miei. Avevo le gambe di un bambino, elettrizzato dalla possibilità di correre a perdifiato tra i ginepri e le pietre, incuriosito e spaventato dalle grotte nascoste tutt'intorno, divertito da quel vento impertinente da cui volentieri ci si lascia mangiare i capelli.
© Corrado Premuda - http://www.corradopremuda.com/
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